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Il richiamo è forte soprattutto in primavera: quando la bella stagione incombe e tutti tornano a riprendersi cura del proprio corpo.

Lo sbiancamento dei denti è una procedura di odontoiatria estetica che vive una fase di grande richiesta. E che, nell’ultimo lustro, ha avuto il merito di rendere meno difficile l’approccio col dentista. Ogni anno, nel recente passato, sono stati infatti almeno 120mila gli italiani che si sono rivolti a un odontoiatra per «schiarire» il colore dei propri denti, che si macchiano e ingialliscono a causa del consumo dello smalto e dell’azione colorante del fumo e dei cibi (caffè, tè, vino rosso, bevande gassate, succhi di frutta scuri, mirtilli, more, aceto balsamico e pomodoro).

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Una procedura che non richiede un bagno di sangue, sul piano economico. Ma che non per questo deve essere presa sotto gamba, se l’invito alla cautela giunge dagli stessi specialisti. «Lo sbiancamento non andrebbe mai effettuato dai minorenni e con sostanze che hanno un ph acido, che può danneggiare lo smalto».

Meglio evitare il fai-da-te

Il monito è giunto dall’ultimo congresso dell’Accademia Italiana di Odontoiatria, Conservativa e Restaurativa (Aic), durante il quale sono stati presentati i dati di uno studio che ha evidenziato come oltre la metà dei pazienti intervistati fosse insoddisfatta del colore dei propri denti. Un dato che spiega cosa ci sia alla base di questo boom di procedure di sbiancamento, il cui costo oscilla tra 250 e 300 euro: con valori in costante crescita del 15 per cento ogni anno.

Alla scelta gli italiani arrivano quasi sempre dopo aver sperimentato il fai-da-te: con dentifrici, gel, collutori, mascherine o altri schiarenti, che contribuiscono a irrobustire un giro d’affari che si stima superi il miliardo di euro. «I denti macchiati o gialli invecchiano il volto e negli ultimi anni avere un bel sorriso, con una dentatura chiara e armonica, è divenuto un desiderio sempre più diffuso - afferma Stefano Patroni, presidente dell’Aic -. Detto ciò, c’è poca consapevolezza su che cosa siano realmente le procedure di sbiancamento, su come affrontarle e come si differenzino dai trattamenti schiarenti fai-da-te. Questi ultimi si limitano a rimuovere la patina superficiale che ricopre i denti, mentre il processo di sbiancamento ossigena il dente, con penetrazione e scambio di molecole di perossido di idrogeno che generano la colorazione bianca».

Due procedure: chimica o meccanica

Prima di intervenire bisogna tuttavia capire da che cosa dipendono eventuali anomalie di colore, chiazze o tinte relativamente scure. In qualunque caso, è importante non eccedere nella ricerca di un «ultra-white» impossibile. «Oggi anche in Europa la tendenza è verso denti anche oltre il colore medio naturale, come accade già da tempo oltreoceano - sottolinea Federico Ferraris, vice-presidente dell’Aic -. L’effetto dello sbiancamento è duraturo, ma non permanente. Secondo le abitudini alimentari e di igiene dentale, si consiglia un richiamo ogni 2-3 anni per mantenere il punto di bianco raggiunto.

Esistono varie tipologie di interventi: con metodi chimici o meccanici. I primi, generalmente proposti negli studi odontoiatrici, si basano sull’azione di prodotti in grado di agire chimicamente sulle molecole responsabili del colore scuro. I secondi prevedono l’utilizzo di paste abrasive che abradono la superficie dentale. Per questo vanno usati dal dentista in maniera controllata per rimuovere le macchie da cibi».

Motivo per cui alcuni dentifrici che utilizzano lo stesso principio non devono essere usati a lungo, perché possono causare danni irreversibili ai denti: fino a farli diventare ipersensibili. Ci sono poi anche dei metodi ottici, che prevedono l’impiego di sostanze che però creano soltanto l’illusione ottica di una maggior brillantezza dei denti.

Attenzione al pH del prodotto che si acquista

Il consesso scientifico è servito a fare il punto anche su un altro aspetto rilevante. Finora i consumatori, nell’acquistare dentifrici, gel e colluttori, si sono preoccupati di tenere d’occhio soltanto la concentrazione di perossido di idrogeno: che nei prodotti acquistabili in farmacia o al supermercato non può essere superiore allo 0,1 per cento (mentre nei prodotti usati dai dentisti si può arrivare fino al sei per cento).

Invece conviene tenere d’occhio anche il pH di questi prodotti, che deve essere il più possibile neutro. La normativa vigente consente una soglia minima di quattro. Ma secondo le più recenti sperimentazioni, hanno dichiarato gli esperti, «dovrebbe essere più aggiornata e restrittiva». Un messaggio rivolto agli stessi pazienti, dal momento che nel nostro Paese non vige l’obbligo di indicare il pH sulle confezione dei prodotti. «Tocca a loro chiedere ai dentisti se un prodotto anche da banco è sicuro».

Twitter @fabioditodaro

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