Un abisso radioso

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Il 10 ottobre si celebra l’Obesity Day, Campagna Nazionale di Sensibilizzazione per la Prevenzione dell’Obesità e del Sovrappeso promossa dalla Fondazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica ADI. Su questo tema, vi riproponiamo sul blog ‘Un abisso radioso’, la storia vera più apprezzata del n. 41 di Confidenze

 

Ero precipitata in un buco nero vorticoso e insaziabile che si placava solo con enormi abbuffate di cibo. Mi ha salvata la chirurgia bariatrica e oggi mi dedico a chi soffre di disturbi del comportamento alimentare

Storia vera di Daniela De Maggi raccolta da Margherita Lai

 

Era il 21 giugno 1968 e si era deciso di festeggiare il terzo compleanno di mio fratello Claudio a casa di mamma, ai Parioli. Io e Claudio abitavamo con papà e nonna a Cinecittà. Allora avevo cinque anni e pesavo 50 chili. Dieci chili per ogni anno della mia vita. Al termine della festa, mi rifiutai di seguire papà a casa, e non tornai più a Cinecittà.

Un ricordo, in bianco e nero ma nitido, mi raggiunge a questo punto: soffrivo di enuresi notturna e ogni volta che bagnavo il letto, papà veniva in camera, mi sollevava per le orecchie facendomi dondolare, mi spogliava, mi metteva sul pavimento e mi prendeva a cinghiate. Non avverto più dolore al pensiero da tanto tempo, né rabbia, solo un’onda di gelo profondo, frutto del non perdono. Ho sospeso da tempo ogni forma di giudizio; i genitori sono persone e dunque fallaci, ma io non ho mai perdonato né mai perdonerò.

A casa di mamma, la mia vita era come in una favola. La sua era stata, negli anni, una famiglia altolocata, ma dell’antico benessere conservavano solo questa abitazione immensa ai Parioli. Senza riscaldamento, né luce né gas, però. Senza più l’argenteria né la cristalleria pregiata che nel passato aveva fatto bella mostra di sé all’interno di mobili di legno nobile forgiati da sapienti artigiani.

Nonna e mamma, da tempo, si erano adattate a fare le donne di servizio per pagare i debiti di gioco di mio zio, ex primo ballerino dell’Opera di Roma. La mattina andavo a scuola e al ritorno raggiungevo mamma e nonna nei palazzi dove lavoravano. La notte, mi addormentavo nella brandina di mamma, rannicchiata nell’incavo del suo braccio, accarezzando i suoi capelli biondi e sottili, io piccola e obesa e lei alta, sinuosa ed esile: i nostri corpi si adattavano l’uno all’altro come incastri di un puzzle. Quello è stato l’abbraccio più grande che mamma mi potesse dare, il più tenero e potente. Ancora adesso attingo forza da quella sensazione di protezione totale, di calore umano che vince anche sul più rigido degli inverni.

Ho sempre cinque anni ed è la sera di Natale, sono stata vestita a festa e mi guardo allo specchio. Indosso un vestitino verde oliva, con una cintura che mi segna la vita, le calze di filanca e le scarpe alla bebé. I miei capelli scuri sono corti, con la riga a sinistra fermata da una molletta vezzosa. L’espressione del mio viso è un punto interrogativo. Fu la prima volta che provai vergogna del mio corpo, delle mie forme ridondanti, messe in risalto da quel vestito di maglina.

Quel Natale, mamma e papà, separati da tempo, avevano deposto le armi e deciso di farci trascorrere una sera da fiaba. Io e Claudio eravamo in camera di mamma e sentivamo dei rumori: «Lo sentite?» diceva mamma «è Babbo Natale che sta mettendo i giocattoli».

Io non dissi nulla, per non ferirla, ma mi era chiarissimo che erano stati loro due a comprare i regali e che l’unico babbo che in quel momento li stava sistemando sotto l’albero, era il mio. Solo due anni dopo le confessai di non credere a Babbo Natale.

«Deda» disse mamma, «lo capisci che se vuoi i giocattoli devi almeno far finta di crederci a Babbo Natale?».

«Ma io non voglio i giocattoli» risposi. «Io voglio la verità».

Lì, mia madre realizzò definitivamente di avere una figlia speciale. Una figlia chiusa ma non scostante, sola, ma che bastava a se stessa.

Non ero speciale nel senso di geniale, ma ero diversa e quella era la mia forza: la forza di non crollare, la forza di credere che, nonostante tutto, ce l’avremmo fatta, la forza di apparire inscalfibile agli occhi altrui, di non lasciar trasparire la realtà particolare che invece vivevamo.

 

La mia non era però una diversità simpatica: ero una bambina scomoda, poi sono diventata una persona scomoda. La mia obesità intanto peggiorava, anche perché papà non ci dava una lira e noi potevamo permetterci solo pane e pasta, cucinata in un fornelletto da campeggio.

Ho sempre mangiato tanto per riempire un vuoto dentro, un buco nero vorticoso e insaziabile, di cui non si vedeva mai la fine e il cui vortice tempestoso si placava solo con l’assunzione di enormi quantità di cibo. Solo quando sentivo lo stomaco quasi lacerarsi e rimandare una sensazione di dolore così forte che mi sembrava di morire, smettevo. Nel tempo, ho provato a riempirla con l’amore, con lo studio, con il lavoro, questa crepa nell’anima, ma nessun sostituto è mai stato, né è, efficace quanto il cibo. Quando papà, due volte alla settimana, veniva a prendermi a scuola e cercava di allettarmi con l’offerta di giochi e vestiti perché tornassi a casa con lui, mi mostravo indifferente; cedevo, invece, alla proposta di passare in pizzeria o in pasticceria. Riuscivo a mangiare da sola una teglia di pizza o un intero vassoio di paste. Poi tornavo a casa e mangiavo anche quello che avevano cucinato mamma e nonna. Preoccupata per i miei eccessi alimentari, a un certo punto mamma iniziò a mettermi a dieta.

Dagli 11 anni in poi, ogni periodo della mia vita è caratterizzato da un diverso regime alimentare. Credo di aver sperimentato, su sua imposizione, tutti e le diete ipocaloriche e le combinazioni alimentari allora conosciute.

In quegli anni, nacquero anche i miei tre fratelli, figli del secondo compagno di mamma: Laura e i gemelli Piero e Luigi. Loro, sono per me un cerchio d’amore nel quale, oltre a noi, rientra solo mio figlio Alessandro. Sono sempre stati, e tuttora sono, per me, una grazia, e la nostra unità, è l’eredità – preziosissima – che mamma ha sapientemente saputo donarci.

Quando compii 12 anni, venne a casa nostra Ascanio, un cugino ventiseienne di mamma. Inizialmente doveva rimanere pochi giorni, giusto il tempo di cercarsi una casa, invece rimase 14 anni. Due anni dopo iniziò, di nascosto, la nostra storia d’amore. Intanto, dopo le medie, m’informai sul percorso per accedere in polizia: ero attratta dalla criminologia, avrei desiderato ricoprire un ruolo investigativo, ma erano altri tempi e mi dissero che, al massimo, avrei potuto far domanda per un impiego segretariale, per il quale erano necessari almeno tre anni di scuole superiori. M’iscrissi, così, in un Istituto Magistrale Montessoriano. A scuola ero una leader, non perché lo desiderassi, ma perché questa attitudine mi veniva riconosciuta naturalmente dagli altri. Ero molto attiva, organizzavo assemblee e scioperi. Le mie amicizie erano soprattutto maschili, forse perché il mio approccio alla vita è schietto e diretto. Sono una di poche parole, ma giuste.

 

Fu in quel lasso di tempo delicatissimo, tra la fine delle superiori e l’ignoto che mi attendeva, che presi una decisione avventata e folle: dissi a mia madre che, essendo diventata maggiorenne, non le consentivo più di decidere della mia dieta e iniziai a mangiare in modo compulsivo. Quell’attrazione senza freni verso il cibo, non compensata da metodi di eliminazione (come succede nella bulimia nervosa) adesso ha un nome, si chiama binge eating ed è annoverata tra i disturbi del comportamento alimentare. In un anno, passai da 68 a 145 chili.

A 24 anni, con il diabete altissimo, e ammalata di obesità, proposi alla mia diabetologa del Policlinico Gemelli di eseguire l’intervento di chirurgia bariatrica, che ha come effetto quello di indurre un consistente calo ponderale. Trovammo, dopo tanto cercare, un giovane medico di appena 30 anni, che si offrì di operarmi al Gemelli; da professionista scrupoloso andò a Genova per qualche mese per apprendere la tecnica, m’informò accuratamente su quello che allora si conosceva dell’intervento – compresa la possibilità di morire – e io acconsentii senza esitare a essere la sua prima paziente.

In realtà, io speravo veramente di restarci, sotto i ferri. L’obesità, infatti, mi aveva tolto tutto. Gli amici mi cercavano per avere supporto emotivo ma non per uscire; ai colloqui di lavoro venivo immediatamente scartata dopo la prima occhiata imbarazzata sul mio corpo strabordante, scomparii perfino dalle foto di famiglia. Non sono presente in nessuna foto dell’epoca, io ero quella dietro l’obiettivo. Ero diventata l’ossimoro di me stessa: coperta da una spessa coltre di grasso ma socialmente invisibile. Un fantasma.

Era il 1987, quando entrai in sala operatoria. Mi aprirono e trovarono una gravidanza di cinque mesi e mezzo, così mi richiusero e mi riportarono in camera, al nono piano del Gemelli. La mattina dopo, chiesi a Pino, il caposala, di accompagnarmi vicino alla finestra, perché volevo buttarmi giù. Dopo che nacque mio figlio Alessandro, l’amore più grande della mia vita, rientrai in sala operatoria e finalmente l’intervento venne praticato. Ebbi delle complicanze, sopravvenne una forte pleurite, e fu proprio Pino, il caposala, a salvarmi la vita: affinché il catarro non mi soffocasse e riuscissi a espellerlo, mi dava dei pugni sulla schiena. Ricordo ancora la mia vicina di letto, Marcella, e il tintinnare della sua dentiera nel bicchiere la notte. Il rumore del carrello delle medicazioni, l’odore del disinfettante, la paura di mia madre.

Quando, una volta dimessa, tornai per la prima visita di controllo, mi scontrai con una realtà inaspettata: allora, l’obesità non era ancora un’emergenza come oggi e le attrezzature, spesso, non consentivano una degenza ottimale (per esempio, solo recentemente si sono diffusi i nuovi letti adattabili alle misure dei pazienti). Mi offrii allora come volontaria per lavare corpi smisurati, tergendo con delicatezza il sudore, passando la spugna tra le pieghe della pelle, aiutandoli nelle necessità primarie. Quando andavo via, mi portavo la loro biancheria sporca, e la riportavo lavata e stirata la settimana successiva (allora non tutti i reparti di ospedale avevano un servizio di lavanderia). Di quel periodo ho ancora davanti agli occhi Emma, un’infermiera, ricoverata lì come paziente, dal viso aggraziato contornato da capelli corti e biondi e due occhi verdi risplendenti di speranza. «Voglio diventare come te» mi diceva, ma dopo l’intervento di diversione sopraggiunse un’infezione ed Emma non sopravvisse. E poi Luca, testa minuta su un corpo da gigante. Anche lui lasciò i suoi 350 chili sul letto ma non è mai andato via dal mio cuore.

Impiegai tre anni circa per arrivare al normopeso, e la compulsione alimentare non tornò più, sostituita però da quella per lo shopping prima (mi tolsi tutte le voglie in fatto di abiti che avevo dovuto a lungo sopprimere); e da quella per il lavoro dopo (iniziai a lavorare nel 1995, acquistando un bar con le cambiali. In tutto ho gestito otto locali, traendone sempre immensa soddisfazione e lasciando solo quando le mie condizioni di salute non mi hanno più permesso di reggere certi limiti). E adesso mi sfogo pulendo in modo maniacale la mia casa.

Nel 1994 ho anche lasciato Ascanio perché innamorata perdutamente di Maurizio, che ho poi sposato con un abito disegnato da me, durante una cerimonia meravigliosa. Ma quando il mostro riemerge dal fondo del pozzo, solo il cibo riesce a placarlo.

Adesso, il massimo che riesco a ingerire, sono 100 grammi, oltre avverto dolore.

Nel 2004 mi sono ammalata di anoressia nervosa, arrivando a pesare 38 chili. Grazie all’analisi e al supporto preziosissimo e insostituibile di Samira, la fidanzata di Alessandro che per me è una seconda figlia, ho superato anche quel periodo.  L’anno scorso, in 40 giorni, ho preso 20 chili, ritornando adessere obesa.

«È l’idrocortisone che assumi per i tuoi problemi di salute» dicono i medici, «non il risultato di un’alimentazione sbagliata». Eppure…

 

Anche adesso che ho un mio equilibrio ben stabile, che Alessandro, Maurizio e Samira mi amano, straordinariamente ricambiati, il corpo nuovamente disarmonico mi disturba, ma, come sempre nella mia vita, non mi scoraggio. Sì, perché continuo a essere una persona scomoda, una donna che non ha paura di niente. Dedico la mia vita alla lotta contro l’obesità, che, non mi stancherò mai di ripeterlo, è una patologia invalidante e non semplicemente un inestetismo. Gestisco sui social network più gruppi dedicati alla chirurgia bariatrica, ai disturbi del comportamento alimentare e alla chirurgia ricostruttiva. Il principale è su Facebook (Chirurgia Obesita’**CO2**no Obesity) ed è aperto a chiunque voglia affrontare la patologia, sia attraverso un intervento, sia con il metodo tradizionale di una dieta restrittiva. Interagiscono anche medici con specializzazioni attinenti.

Insisto sulla necessità che il paziente, una volta operato, possa avvalersi di un supporto psicoterapeutico mirato, in forma gratuita per gli aventi diritto.

Ripeto all’infinito le differenze tra gli interventi attualmente maggiormente praticati (sleeve gastrectomy, bypass gastrico e minibypass).

Ogni volta che un membro del gruppo mi sottopone un problema importante, non me ne lavo le mani. Mai.  Anche perché, in tutti questi anni, ho instaurato rapporti di stima profonda e reciproca con molti dei più noti chirurghi italiani.

Sono attorniata da tante persone meravigliose, e ognuna di loro è una tessera del mosaico che forma la mia anima. Attribuisco all’amicizia un valore inestimabile. e anche se i legami finiscono, i momenti belli restano e non li dimentico.

Una delle iniziative a cui tengo di più è “La giornata del fiocchetto verde”, che indìco ogni anno per favorire l’incontro tra i pazienti bariatrici, così che dal confronto, e dall’informazione, traggano reciproco beneficio.

È un evento conviviale che si svolge in molte regioni italiane, al quale partecipano anche i medici. Perché nessuno è, né deve mai sentirsi, solo nella sua diversità. O stranezza. O momentaneo insuccesso. Se tutti ci diamo una mano, nessuno di noi cade.

L’ho dedicato a mio fratello Claudio, che la vita mi ha strappato quando aveva solo 28 anni.

Ancora adesso, cerco il suo sguardo tra gli occhi della gente, la sua bellezza nel loro sorriso, i bagliori d’oro dei suoi occhi verdi, nel gesto gentile di una persona incontrata per caso.

Deda l’aveva inventato lui come nomignolo e Deda voglio essere per sempre.

Il peso dell’anima, dicono che sia di 21 grammi, siamo creature leggere e impalpabili, regaliamoci l’un l’altro tenerezza e attenzione, qualunque sia il nostro involucro esterno.

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