L’Oms colloca il burn-out nell’elenco dei disturbi medici

Burn Out

 

di Antonietta Mastrangelo

L’Oms ratifica il burn out come disturbo medico. Un problema importante e sottovalutato secondo il sindacato Anief che richiede l’apertura di un’inchiesta da parte del Mef sui casi accertati rispetto al personale della scuola italiana. Servono studi accurati per attivare tutte quelle misure preventive per evitare e contenere il fenomeno.
Il burn-out inserito nell’elenco delle malattie dall’Oms: è disturbo medico
L’Organizzazione mondiale della Sanità colloca il burnout nel grande elenco dei disturbi medici, aggiornato di anno in anno.
Si tratta di una “sindrome che porta a stress cronico impossibile da curare con successo”. Invece, in Italia si continua ad operare come se il problema non esistesse: basta dire che i medici delle Commissioni mediche di verifica quasi sempre ignorano le patologie professionali dei docenti, finendo per riammettere in servizio professori con pesanti diagnosi psichiatriche.
A denunciarlo è stato anche il dottor Vittorio Lodolo D’Oria, tra i massimi esperti nazionali della patologia tra gli insegnanti ed in generale sullo stress da lavoro.
Dopo decenni di studi, a 45 anni da quando lo psicologo Herbert Freudenberger se ne occupò per primo, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ufficialmente inserito il burnout nel suo grande elenco dei disturbi medici, aggiornato di anno in anno.
Secondo gli esperti mondiali in fatto di salute, lo stress da lavoro non è una vera e propria malattia, ma un “problema associato alla professione” caratterizzato da evidenti sintomi: “spossatezza sul luogo di lavoro”, “cinismo, isolamento o in generale sentimenti negativi” ed “efficacia professionale ridotta”.
La conclusione dell’Oms è però l’aspetto più importante dell’importante catalogazione del burnout: stiamo parlando, sostiene l’Organizzazione mondiale della sanità, di una “sindrome che porta a stress cronico impossibile da curare con successo”,che in questo modo, conferma la decisione dell’agenzia speciale dell’Onu per la salute di fornire precise direttive ai medici per diagnosticarlo.
In tale questione però è che ci sono ancora dei Paesi, come l’Italia, che si professano moderni ma poi non si attivano per andare a rimuovere il motivo principale che, soprattutto in determinati ambienti di lavoro, è alla base di un numero crescente di patologie, quale è appunto il burnout.
Tra le professioni più coinvolte in questo processo stressogeno, che se protratto per anni e anni, favorisce l’insorgenza di malattie professionali anche invalidanti, risultano tutte quelle che hanno a che fare con persone in situazioni di disagio, in difficoltà e in crescita: quindi, necessariamente, anche l’insegnamento.
Secondo il presidente dell’Anief Marcello Pacifico, alla luce di quanto dichiarato dall’Oms, non si può perdere altro tempo: occorre procedere ad un immediato adeguamento, anche attraverso una formazione apposita, delle Commissioni e dei Centri medici pubblici di competenza, affinché si adeguino alla consistenza e gravità delle patologie mentali. Bisogna inoltre, ripensare ad una formulazione di pensionamento per così dire “anticipato” (a 63 anni) del personale della scuola, ad iniziare dai docenti, non legando più l’uscita dal lavoro all’aspettativa di vita, ma collocando la professione docente tra quelle di tipo gravoso.
Infine, è necessario permettere a tutti gli insegnanti che non ce la fanno più a gestire la classe con serenità, di passare ad un ruolo formativo alternativo, magari affiancandoli ai colleghi neo-assunti o bisognosi di specializzarsi o abilitarsi in altri insegnamenti.
Cosa dicono gli esperti
Secondo il dottor Vittorio Lodolo D’Oria, tra i massimi esperti nel settore, il problema risiede proprio nel mancato riconoscimento ufficiale di malattia professionale, che nel caso dei docenti diventa paradossale e autolesionistico.
In particolare egli sottolinea come i medici stessi schiacciati dagli stereotipi al pari dell’opinione pubblica, e totalmente ignari delle malattie professionali della scuola, non comprendono il nesso che lega le diagnosi psichiatriche all’insegnamento.
Il medico in particolare ha raccontato di una docente presso una scuola primaria che nel 2018 si è recata presso il Centro Psico Sociale di zona dove è stata visitata da una psichiatra.
La donna ha detto di essere rimasta alquanto perplessa in quanto la dottoressa (dopo alcuni lunghi minuti di silenzio) gli ha detto che in quella sede vengono curati pazienti con malattie ben più gravi e serie (come ad esempio la schizofrenia) e che il medico di famiglia avrebbe potuto limitarsi a prescriverle “un farmaco antidepressivo”.
I dati ufficiali del burn-out in Italia
Eppure, in Italia è stato appurato che le malattie professionali degli insegnanti che determinano l’inidoneità all’insegnamento, presentano una diagnosi psichiatrica nell’80% dei casi.
Una condizione perlomeno favorita delle condizioni di stress da lavoro.
Inoltre, esiste un’alta incidenza di malattie psichiatriche ed oncologiche tra coloro che soffrono o hanno sofferto di stress da lavoro: un gruppo di ricercatori che ha compiuto un’indagine nazionale, utilizzando più questionari, volti ad indagare diversi ambiti problematici connessi con lo sviluppo della sindrome, ha scoperto che spesso ciò che manca nel lavoro docente è la possibilità di essere sostenuti da una rete (di esperti, di colleghi, etc.), che contribuisca a fornire un supporto sempre presente e disponibile nei momenti di inevitabile difficoltà vissuti a scuola.
Una condizione confermata anche da altri studi nazionali ed internazionali (Gabola e Albanese, 2015; Di Giovanni e Greco, 2015). Inoltre, i più esposti al rischio burnout risultano, oltre ai più giovani, anche i docenti più emotivi e stanchi, spesso con tanta anzianità lavorativa alle spalle.
Questo avviene perché i medici delle Commissioni mediche di verifica diverse volte ignorano le patologie professionali dei docenti, finendo per riammettere in servizio insegnanti con pesanti diagnosi psichiatriche.

Cosa propone il sindacato Anief a contrasto del meccanismo burn-out
Quello che servirebbe, quindi, consiste nel realizzare un immediato adeguamento, anche attraverso una formazione apposita, delle Commissioni e dei Centri medici pubblici di competenza, perché si adeguino alla reale consistenza e gravità delle patologie mentali della categoria.
Contemporaneamente, diventa fondamentale che i docenti italiani vengano collocati in pensione così come avviene nei Paesi europei, ovvero a 63 anni, e non legando l’uscita dal lavoro all’aspettativa di vita.
Invece, tranne per i maestri della scuola dell’infanzia, si continua a considerare la loro professione non particolarmente gravosa: così ci ritroviamo con il personale insegnante più vecchio del mondo.
Secondo il presidente nazionale Anief, occorre quindi agire su diversi piani preventivi: Prima di tutto, occorre permettere al personale della scuola, ad iniziare dai docenti con almeno 25 anni di servizio, di lasciare il lavoro poco dopo i 60 anni di età.
Sul finire del 2018, con la Legge di Bilancio, l’Anief ha formalizzato questa richiesta con una serie di emendamenti che avrebbe permesso, tra l’altro, l’accesso e la decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità secondo le regole precedenti alla legge Fornero, oltre a collocare la professione docente tra quelle a carattere gravoso in tutti gli ordini di scuola.
Egli prosegue affermando che è in secondo luogo necessario ricordare che, non si può costringere un insegnante a fare lo stesso lavoro per decenni: a richiesta, lo Stato deve permettere a tutti coloro che non ce la fanno più a gestire la classe con serenità di passare ad un ruolo formativo alternativo e meno stressante.
Tra i diversi compiti uno è ad esempio, il supporto ai docenti neo-assunti, nel corso del periodo di prova sul campo, oppure quelli in procinto di passare su altri insegnamenti e quindi anch’essi bisognosi di consigli e indicazioni da parte dei colleghi più esperti.
La descrizione del burnout, da parte dell’Oms, di una sindrome che conduce allo “stress cronico impossibile da curare con successo”, dunque, la dice lunga sull’esigenza impellente di legiferare in merito a questo problema, da troppo tempo trascurato, per riconoscerne l’associazione con vere e proprie patologie.